Luigi Veronelli
I vini francesi sanno di bara. I nostri…
La frase con cui iniziai il mio lavoro, 45 anni fa, fece scandalo:
Il peggior vino contadino è migliore del miglior vino d’industria.
Chiaro: un paradosso, sentenza o battuta contradditoria che ha sempre in sè un fondo di verità.
Quella mia battuta aveva in sè più verità di quanto io non credessi.
Non mi meraviglia affatto che i più conosciuti – o quantomeno i più esposti – dei divi americani, uomini e donne, stiano abbandonando i cru di Francia per i cru della mia patria.
I vini francesi sanno di bara; vecchi la maggior parte, stantii, ripetuti.
I nostri hanno – oltre la baldanza di ciò che è giovane e nuovo – dialettica complessità.
Li bevi e ti accorgi: in ciascuno è la storia, la terra, il clima e la gente del luogo in cui sono stati prodotti.
E te ne innamori.
I contadini – considero tali anche gli industriali d’antan da che hanno capito le mie lezioni e acquistato le vigne (e lavorate con spirito terragno) – dedicano finalmente ai nostri vitigni, tanti, le stesse cure di Francia.
Eseguono potature verdi durante il mese di agosto e selezionano le uve dopo la vendemmia.Nascono dai vitigni, dimenticati un tempo per la difficoltà della loro coltura e la minima quantità della resa per ettaro:
l’aglianico, l’aleatico, l’avanà, la bianchetta genovese, il bovale, il carignano, il casavecchia, il cesanese, il fiano, la falanghina, il greco, il lagrein, il magliocco, il nasco, il negroamaro, il nero d’Avola, il pallagrello, la passerina, il pelaverga, il pignolo, il refosco, il rouché, il sacrantino, lo schioppettino, il semidano, il teròldego, il timorasso, il vermentino, il vitovska (carsico), il wildbacker, potrei continuare e moltiplicare.
Vini nuovi e complessi, così diversi da ogni altro nel mondo.
Luigi Veronelli
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