Luigi Veronelli
Pensieri di Veronelli sulla grappa
La grappa, inventata per alleviare la fatica dei contadini e che io chiamo sangue di fuoco, è per noi italiani un vero e proprio “morso di vita”. M’auguro che lo diventi per gli uomini d’ogni parte del mondo.
In linea molto ma molto generale, la grappa, figlia naturale delle zone del Nord d’Italia, prima degli anni 70 costituiva l’elementare integrazione del mantello e del focolare nella lotta contro il freddo.
Proprio l’essere il termosifone dei contadini, l’ha esclusa per secoli dai saloni e dai salotti, in quanto ostica ai costumi ed ai palati fini.
Nei primi anni 70, le grappe entrano nei mobili-bar per la degustazione a sé sole e nei cocktails.
Da sottoprodotto della lavorazione del vino si fa prodotto autonomo e singolare grazie alle cure selettive che le vengono dedicate.
I vini hanno l’anima, soprattutto, dalle loro radici e l’uomo ne accompagna, solo, la nascita. Le grappe hanno l’anima soprattutto dall’uomo che dà loro la vita.
Il vino è il canto della terra verso il cielo.
La grappa è il tentativo immanente – e tuttavia fluttuante tra l’angelico e il diabolico – di trattenere quel canto.
Posso ridire per l’acquavite ciò che scrissi per il prediletto vino: la sua anima apparterrà a colui che la sa scoprire con delicatezza.
E’ il distillare che consacra un grappaiolo. Il distillare è il “proprio” delle sue mani.
Muta i fattori, grappaiolo-distillare con vignaiolo-vinificare, e il risultato non cambia.
So bene: le grappe possono essere proposte, e gustate, per sè sole, senza o con una minima elevazione in vetro.
Io sono tuttavia certo – e mi rivolgo ai grappaioli di serena coscienza e buona volontà, perchè vogliano effettuare meticolose esperienze – che la maturazione in carati nuovi darebbe anche alle (buone) grappe le doti dell’eleganza e della completezza.
Le grappe di cru hanno infinite suadenze, individue caratteristiche, e quindi differenze.
Fossero le grappe prodotte tutte con volontà puntuale del meglio, col proposito di artigianale perfezione, conquisteremmo – essì amici, altro che whisky e cognac – i mercati del mondo.
Spazi nuovi – molto più ampi di quanto non si possa credere – si sono aperti con la distillazione delle uve.
Ed anche per le acqueviti d’uva abbiamo l’eccitante incognita della maturazione in carati.
Se la distillazione italiana imboccherà queste vie, passeranno pochi anni e saremo i primi proprio nel mercato altamente redditizio e in evoluzione dei distillati nobili.
Ritengo imperativi categorici per la produzione di grappe vertice:
a) l’uso degli alambicchi discontinui (a fuoco diretto, a bagnomaria, a vapore).
b) la distillazione secondo “monovitigno”, vinaccia per vinaccia.
Ne aggiungo un terzo: la maturazione in carati (piccole botti di legno pregiato)
Luigi Veronelli
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