Luigi Veronelli
Le cucine regionali. Quindicesima puntata. Sicilia
Le cucine regionali.
Quindicesima puntata. Sicilia.
Di Luigi Veronelli
(introduzione pubblicata il 3 ottobre)
LA CUCINA
“Santa Lucia, Santa Lucia, / supra un munti chi sidia. Passau Gesù ccu Maria / e cci rissi: Lucia, Lucia, / chi fai supra un munti? / – Caru Maistru, caru Maistru, / haju ‘na fitta all’occhiu / ch’un pozzu abbintari. / – Si vai a li me’ ortu / cc’è simenza di finocchiu: / cu li me’ manu la chiantavi, / cu li me’ piedi la pistavi, / cu la me’ vucca la binidissi: / tagliati, purpu, e ‘un cumparissi”.
Mi ha recitato lo “scongiuro” una vecchia donna di Salaparuta; con audace esegesi mi chiariva il perché della finocchiella, dei finocchietti di montagna, nella pasta “cui sardi”. Non ne ero certo convinto; avrei potuto, con poco rispetto della sua ingenua fede, ricordarle la historia che anche avevo raccolto:
“Santa Lucia ‘n càmmira stasia, / oru tagghiava e argento cusia. / Passau lu Signuri ccu Maria / e cci rissi: – Chi fai, Lucia? /- Cugghii ‘na rama ri finocchiu / e mi iu ‘na muschitedda nna l’occhiu. Susi, Lucia, ca nenti è!…”
L’orzaiolo era entrato, e non uscito, a causa del finocchio. Non era quella l’origine – e chissà quale – della presenza della
finocchiella nella pasta con le sarde. Le ero grato tuttavia; aveva dato conferma, non meditata, a suggestione: i piatti sono qui, in misura più ampia e determinante che altrove, rituali; costante in queste terre il sovrapporsi in intrico, a volte indistricabile, di sacro e profano. Retaggio forse del groviglio, o meglio dell’intreccio, di civiltà; davvero la Sicilia è stata al centro di quattromila anni di storia mediterranea, davvero non ti sorprendi – un po’ che tu le abbia battute, le terre assolate -: colonne dei templi greci sostengono architravi di cattedrali; quadrati massi dell’impero romano; medievali castelli; i campanili furono minareti; moschee le chiese; il barocco “fiorisce” su cunicoli del quaternario, in qualche caso ancora abitati.
E forse dalle sovrapposizioni di civiltà, dal paesaggio e nelle opere assorbite, non, o quanto meno non del tutto, dagli uomini (per la grande rapidità e l’estrema differenza dei “fenomeni”) scende l’attuale desiderio di abbandono, quella “fragilità” che, ad altri – più macroscopici – episodi, aggiunge la sorpresa di una resa rapida, anche preoccupante, allo squallido scatolame. Resa che ha posto non pochi ostacoli alla mia inchiesta. Resa cui occorre opporci.
Dai frutti e dalle verdure (e dai pesci, che sono quasi raccolta “vegetale” dal mare) cibi esaltanti, un arco vastissimo per ampiezza e differenza: dalla pasta con le sarde alle petronciane; dalle popolaresche arancine al caciu, ancora più rustico, all’argintera; dal cùscusu che ti sovviene la vicina Africa alla pazienta simmula originaria; dai cannoli alla cassata.
I PRODOTTI
Le specialità naturali
Stretta d’ogni dove, in esaltante assedio, da sole e mare, la Sicilia, ha primo cibo, i suoi frutti.
No, non ne ricordi il sapore: le arance asfittiche del cesto milanese qui hanno solo avuto nascita; gli è mancato il vento largo e caldo di scirocco, gli è mancato il sole netto dell’inverno isolano; gli è mancato il sapore.
Lo ritrovi qui, ti sovvieni dei versi, qui solo li fai giusti: “Belle bimbe innamorate / arance comprate / hanno il magico sapore / dei baci d’amore”. Quel sapore – una bella esperienza, confessalo, un esaltante ritorno – l’hanno un po’ tutti i cibi di Sicilia perché in tutti ritrovi, forse sotto una scorza rude, come l’arancia, freschezza ed innocenza.
Le specialità “acquisite”
- La bottarga, detta “di corsa”, grassa, di tonni che non hanno ancora deposto le uova, e “di ritorno”, più secca.
- Il caciocavallo.
- Il canestrato, formaggio che ha nome del canestro in cui si forza – ne prende la forma – appena fatto; il canestrato fresco è detto (con voce che ha misteriosi legami secolari col Piemonte) “tuma”; appena salato “primu sali”; ha diritto al nome solo, canestrato, dopo 4-5 mesi, “fatto” compiuto, piacente e sino a grassezza (lacrima).
- I capperi in salamoia (favolosi quelli di Pantelleria e di Salina).
- I formaggi pecorini, freschi e stagionati, naturali e pepati (tra tutti ha gran fama il cosiddetto maiorchino di Bronte).
- La gelatina, di maiale, o testa di puorco, o susu, saporosissima, simile alla testa in cassetta di Liguria.
- Il miele, nelle tante versioni: di lavo, di fiori d’arancio, di castagno, di sulla, di zagara, di santoreggia, di timo.
- La mostarda, nelle tante versioni: di cotogne, di fichi d’India, di fichi d’India e mandorle, di mosto.
- Il mosseddu, filetto di delfino essiccato.
- Le olive, nelle varie versioni: alla menta, farcite e “scacciate”.
- Il piacintinu (chissà mai perché questo nome), formaggio a base di latte di pecora, insaporito con zafferano e grani di pepe nero.
- Le provole.
- La ricotta nelle tante versioni: fresca, secca, salata e infomata.
- Le salsicce, quasi sempre piccanti per generosa aggiunta di peperoncino.
- Le salsicce di mare, dette variamente (sosizzuni, fícazzi, carubbeddi), preparate con i sottoprodotti – chiamali sottoprodotti – del tonno.
- La salsiccia di Nicosia, a base di carni di maiale e di coniglio.
- La salsiccia pasqualora, rituale per la Pasqua, di Paceco.
- Il sanguinaccio piccante di San Michele di Ganzaria.
- La sosizza ccu cimulu, salsiccia al finocchietto, particolarmente pregevole ad Agrigento e a Bompietro.
- Il subissatu, salame di carne magra di maiale, preparato a Troina con particolarissima lavorazione.
I dolci
Buoniddio, scrivere di dolci siciliani; davvero ci vorrebbe un tomo in quarto: nessuna terra, nessuna, ne è più ricca.
Cito, a puro titolo di esemplificazione:
gli affucaparrini, letteralmente strozzapreti, di Gela, simili agli straccadenti del nord, gli agnellini dolci, per la Pasqua, di Villaprati; l’agnello imbottito, anche dolce, di Erice; gli amaretti coi pinoli di Giarre; i famosi cannoli, sottili involucri di croccante pasta in cui trovi ricotta zuccherata e inseminata di pistacchio spezzettato o frutta candita; l’ancor più famosa cassata, al presente consumata in ogni stagione ma una volta riservata al pranzo del giorno di Pasqua; i cassateddi ‘i ficu di Mazara del Vallo; la cubbaita, croccante a base di miele, zucchero e semi di sesamo; la cucia dolce (il grano viene cotto nel latte e mescolato a dadolini di zucca candita, crema di ricotta e pezzetti di cioccolata); la cucciddata, ripiena; la frutta candita, famosa in tutto il mondo, comprendente cedro, arancia, mandarino, fragole, ciliegie, zucca gialla, lamponi, albicocche, pere, prugne, mele cotogne, mandorle verdi; i frutti della Martorana, imitazioni perfette, a base di pasta di mandorle della pasta reale; i mustazzola, dolci di varia forma (di fiori, soprattutto), a base di vino cotto o di miele; i nucàtuli, biscotti ripieni; gli sfinci, frittelle natalizie; il torrone, dal più semplice con zucchero e mandorle al più sofisticato con miele, pistacchio, mandorle, vaniglia e bianco d’uovo; i totò alla vaniglia o, leccornia, al cioccolato.
Mi fermo (potrei continuare, essi: pressoché all’infinito; ogni paese ha dolci “suoi propri”) non senza aver prima ricordato l’indiscusso primato siciliano nella preparazione dei gelati sia alla frutta sia alla crema.
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