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Un avamposto di Capri in terra bergamasca
Conosco Bruno il caprese (all’anagrafe Federico Bruno) sono ormai tanti anni, poco dopo il mio esordio nel mondo della gastronomia. Lo stimo, lo ammiro, gli voglio bene.
Figlio di pescatori, lui stesso pescatore – sin da bambino ha battuto il mare sulla barca di famiglia -, poi ristoratore emigrato nella bergamasca. E’ tra coloro che – primi anni 70 – hanno seminato e diffuso la cultura del pesce nel Nord Italia. Si è insediato in Mozzo, a La Caprese appunto, perché sapeva – si era informato – che Bergamo, la città di Arlecchino, o dei Mille, era strategica, per buone posizione geografica e disposizione sia mentale sia economica.
Di Capri ha portato non solo le ricette e i relativi piatti e prodotti, anche la saggezza e la temperanza della gente di mare, oltre che la filosofia di vita, così gioiosa e speranzosa, di quella napoletana.
Ha lavorato bene, benissimo (insieme a moglie Giuseppina), conquistato la testa e il cuore di tanti.
Diventato quel che si dice, un riferimento, anche per i colleghi. Lo è ancora, a mio parere: non v’è pesce, sistema di pesca, modo di cottura e di condimento che non conosca.
Ebbene. Da più di un anno, nella bergamasca, La caprese non è più la sola caprese.
V’è pure una trattoria-pizzeria, in città; si differenzia nel nome per la sola omissione dell’articolo. Ma le differenze sono anche su altri piani: da un lato, i valori della qualità e della identità cucinarie; dall’altro, una società che possiede altri locali e che fa business.
Questione di scelte certo, c’è mercato per tutti.
La coincidenza del nome genera però confusione, certo a maggiore, se non esclusivo, svantaggio di Bruno.
M’indigna che la storia e il percorso di un uomo (e della sua famiglia) conti meno delle norme.
Che importa se lui non ha pensato a tutelarsi, preoccupato com’era, e com’è, a mantenere alto il suo impegno?
Il principio di anteriorità dovrebbe valere, almeno in questo caso, solo per meriti acquisiti sul campo.
I suoi sono evidentissimi, indiscutibili.
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