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La cucina in televisione: una grande ascesa

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Riprendo un post di Stefano Bonilli per la Gazzetta Gastronomica, su un tema che non smette d’essere d’attualità, anche per le sue attraenti “perversioni”. Scrive Stefano:
“… Sky ha scelto di fare anche un’edizione italiana di Hell’s Kitchen puntando su Carlo Cracco come emulo di Gordon Ramsay.
Se chiedessero, ai molti che scrivono di cibo sul web o che si danno appuntamento davanti alla tv, chi era Ave Ninchi, quasi nessuno saprebbe rispondere senza l’aiuto di wikipedia.
Era una brava attrice italiana
(teatro in primis, n.d.r.) e con Luigi Veronelli condusse a metà degli anni Settanta la prima trasmissione televisiva dedicata alla cucina italiana, A tavola alle 7, un grande successo della televisione in bianco e nero. Quella televisione era didattica, voleva formare gli italiani, era la Rai di Bernabei, di un’Italia in grande trasformazione.”

Ha ragione. Sia nel sottolineare la non conoscenza di Ave Ninchi, e per i giovanissimi neanche quella di Gino Veronelli, sia nell’affermare che quella era una televisione didattica. Io direi di più: educativa, non come apprendimento in senso stretto, quanto per aver iniziato a far comprendere che cibo e vino erano (sono) valore – culturale, storico, sociale, economico – e per ciò meritavano (meritano) avvicinamento rispettoso e attenta conoscenza.

aveninchi Ave Ninchi


Davvero un grande successo quel programma, tanto da risultare incomprensibile nella dirigenza Rai di allora, la rinuncia alla trasmissione dopo 7 edizioni di ascolti e gradimento alti, continui, anno via anno in crescita.
Probabilmente l’”esperimento” aveva fatto il suo tempo, il gioco era stato bello, cambiamo gioco.

Prosegue Stefano:
“Oggi, quaranta anni dopo, il pubblico non vuole più essere educato o intrattenuto ma vuole essere coinvolto, ognuno nella sua nicchia, e quindi anche in quella del food, negli ultimi anni in grande ascesa.

Ciò è preoccupante. Da un lato perchè non si guarda più a contenuti in senso stretto, dall’altro è il segno di un sistema televisivo (ma della comunicazione in genere) che, nell’illudere il consumatore di personalizzare per lui il prodotto quasi come questi lo ha in mente, in realtà lo tiene maliziosamente legato a sè per le corde emozionali. Infatti:
“Non è un caso che una trasmissione come Master Chef’s sia nata in una pay TV come Sky che, scrive Carlo Freccero, è organizzata non a partire da dati anagrafici o di largo consumo come le casalinghe, i giovani, gli anziani, ma da differenze culturali e di genere come gay, maschi, femmine, usanze e tradizioni, cioè una televisione che non cerca il minimo comun denominatore, ma vuole fornire a ogni gruppo, anche limitato, un prodotto specifico che soddisfi bisogni personalizzati.
 E’ un pubblico attivo, impegnato in veste di attore ma anche produttore di contenuti...
E i cuochi di punta, in difficoltà nella gestione del loro specifico economico a causa della crisi, colgono al volo questa nuova opportunità… diventano star nazionali e la loro trasmissione raggiunge risultati impensabili per una pay TV satellitare, con punte di un milione di ascoltatori a puntata.


I cuochi di punta già… Alle chiamate televisive si devono poi aggiungere quelle per le consulenze o le aperture di locali a loro marchio un po’ ovunque nel mondo (ma questo è un altro argomento).
Con relativo aumento di prestigio, ma anche un presenza più rarefatta nel ristorante d’origine.

“… E così”,
malincon-ironica chiosa di Stefano, “nell’immaginario dei giovani aspiranti cuochi al sogno di far parte della brigata di un ristorante stellato si sostituisce quella di una comparsata televisiva.
..”

Un paradosso, certo. Che come tutti i paradossi, ha nelle proprie viscere un po’ di verità: l’ambizione al famoso quarto d’ora di celebrità.
Gian Arturo Rota

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