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Laurea Honoris Causa a Bruno Giacosa (gli interventi)

 

Come annunciato, pubblico gli estratti degli interventi delle persone che hanno presieduto alla cerimonia di consegna della Laurea Honoris Causa, conferita a Bruno Giacosa dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.
Comincio con il Rettore dell’ateneo, Piercarlo Grimaldi, che precisa quale la disciplina:

la prima laurea magistrale honoris causa in Promozione e Gestione del Patrimonio Gastronomico e Turistico a Bruno Giacosa, figlio nobile di questa terra di malore e di felicità. La laurea celebra il lavoro di un uomo e di una famiglia e, più in generale, la tradizione di un territorio di cui l’Università è parte e in cui è radicata.

La Laudatio è stata affidata al professor Nicola Peullo, ordinario di Estetica del gusto, con cui ho preparato la bellissima giornata di omaggio a Gino Veronelli, proprio all’Università di Pollenzo, lo scorso 24 maggio.
Sottolinea il senso, storico, sociale, etico, dell’opera di Giacosa, i valori di cui è composto che, insieme alla singolarità del lavoro tecnico-produttivo, costituiscono la chiave di lettura del suo successo:

“Appena si è proposto il nome di Bruno Giacosa, infatti, tutto il corpo accademico ha facilmente convenuto che si era di fronte a un caso lampante. A un raro caso di perfetta corrispondenza tra oggettivi meriti,  propri dell’uomo a cui si voleva conferire il riconoscimento di una honoris causa, e quei valori culturali attorno a cui si è costituita l’idea stessa dell’Università di Pollenzo e che essa, con la sua  didattica e la sua ricerca, tenta di promulgare e insegnare…
In sintesi, ecco i meriti oggettivi e evidenti dell’uomo: produttore di grandi vini da più di sessant’anni, Bruno Giacosa è stato uno dei precursori della stagione della  rinascita della vitivinicoltura italiana di qualità, avvenuta negli anni ’80.
Già dagli anni 60 e 70 si è proposto sul mercato internazionale con vini che lo hanno fatto conoscere come firma individuale ma che, al contempo, hanno fatto conoscere la sua terra d’origine, quella nella quale ha sempre operato, le Langhe. Questi meriti oggettivi si declinano però in una serie di valori, intellettuali e umani…

l’artigianalità. Giacosa rappresenta in misura esemplare l’“uomo artigiano”, colui che arriva a possedere, grazie a un esercizio continuativo e appassionato, le più alte capacità tecniche in un determinato campo. Queste capacità tecniche si  cristallizzano in un sapere che, più che concettuale e teorico, risulta tacito e implicito. Tutti coloro che lo conoscono di persona, sanno della poca propensione di Giacosa per la parola parlata, per la spiegazione verbale delle sue opere, i vini che ha elaborato in tutti questi anni: questo lato quasi proverbiale del suo carattere coglie forse anche un aspetto specifico della figura dell’artigiano ma anche dell’artista, almeno nel significato classico della nozione, non quello dell’arte contemporanea in cui l’artista è anche manager e promotore di se stesso. Chi è infatti Bruno Giacosa?  Forse la definizione più bella fu data tanti anni fa da Luigi Veronelli: Giacosa è un grande vinicultore.
“Il termine – scriveva Veronelli recensendo quel capolavoro che fu il Barbaresco Santo Stefano del 1971 sulla rubrica “Il buon vino”, di Panorama – sembrerebbe ‘coniato’ su di lui”. Vinicultore, nell’intenzione di Veronelli, è innanzitutto colui che, grazie a cura, sensibilità, passione e giudizio, conferisce un senso culturale pieno a quegli strani artefatti naturali che sono i vini. Ma questa parola gioca anche con un altro significato, nel quale risiede un aspetto molto specifico dell’opera di Giacosa, quello cioè di aver legato la sua fama anche al fatto di essere un acquirente di uve dal fiuto infallibile. Giacosa infatti per molto tempo e per buona parte della sua produzione non ha posseduto vigneti di proprietà: alcuni  arriveranno in piccola parte solo dopo, la prima nel 1980, poi nel 1996 e nel 1998.
sentimento di comunità… Il sentimento di comunità che Giacosa incarna corrisponde a quella che è stata definita ecumene (etimologicamente, la porzione di terra abitata dall’uomo, indi la casa dove tutti viviamo): è una nozione ripresa dalla geografia umana e dalla filosofia francese che vuole esprimere la relazione attiva e produttiva, ma al contempo attenta e rispettosa, tra l’uomo e lo spazio che abita…
Giacosa ha interpretato tale relazione tra spazio e tempo, tra origine e destino, nel significato più alto: non con la chiacchiera né con relazioni opportunistiche e formali, ma con la conoscenza profonda e incessante di un territorio come mappa colturale e culturale. Ciò lo ha portato  a diventare un vero e proprio genius loci delle Langhe…
imprenditorialità d’eccellenza.  Giacosa decise già negli anni 70 di lanciarsi con determinazione sul mercato internazionale, in particolare tedesco e statunitense. E lo ha fatto con uno stile unico, proprio di chi intende accettare il successo solo come conseguenza della sua opera, cioè sul valore dei propri vini. Egli, in altri termini, non si è dedicato a operazioni di marketing né a pubbliche relazioni, nella convinzione, propria del vero e ostinato artigiano, che la qualità del prodotto sia condizione necessaria, e di per sé sufficiente, per guadagnare ovunque stima e apprezzamento…

Questi tre sono valori che dovrebbero caratterizzare il “made in Italy” nel mondo, e che, nelle loro espressioni migliori,  corrispondono a un artigianato artistico o un’arte artigianale di primario rilievo.
Ora, il vino di Giacosa è da intendersi proprio così: non mera commodity, non semplice “prodotto di consumo”, ma qualcosa che incarna valori simbolici, sociali, storici, estetici. Tutti coloro che amano il vino, e ne apprezzano le uniche caratteristiche – la sua varietà espressiva dovuta all’interazione tra vitigno, suolo, lavoro umano, e la sua capacità di evolvere e di invecchiare, di modificarsi sorprendendo – sanno che il vino non è una bevanda come un’altra…

… Perché la capacità tecnica, il savoir-faire artigianale incarnato dal vinicultore non è in nulla diverso dall’arte nel suo significato più antico e longevo, quello di techne, un saper-fare secondo regole, una perizia tecnica  guidata da abilità e giudizio, ma anche da sensibilità e rispetto. Il vino non è una cosa, non è materia inerte: è un sistema vivo e complesso che, come tale, va trattato con cura.  Il vinicultore è colui che sa educare e allevare questo “essere vivente” per lasciarlo esprimere secondo tutte le sue potenzialità e senza stravolgerlo.

Ed ecco i passaggi per me più pregnanti della Lectio Magistralis dell’ottantatreenne Bruno Giacosa:

“Io sono nato nel 1929 e tra i primi profumi che ho sentito ci sono stati anche quelli del vino di mio nonno Carlo. Proprio il 1929 è stato anche l’anno in cui il nonno è morto e in cui mio padre Mario ha preso in mano l’attività. Il nonno Carlo aveva iniziato a vinificare e imbottigliare già alla fine dell’Ottocento…
Il 1929 è stato anche l’anno della grande crisi, per cui mio padre decise di smettere di vendere il vino in bottiglia e di limitarsi a comprare uve, che poi o rivendeva direttamente oppure vinificava e vendeva il vino sfuso…
Io mi sono trovato, avevo 16 anni ed era appena finita la Seconda guerra mondiale, a entrare in cantina a fianco di mio papà e ho iniziato a girare con lui per le Langhe, a vedere come si faceva a comprare e a rivendere le uve, a sceglierle e a distinguere quelle più buone da quelle poco interessanti, a ricordarsi quali erano le vigne che davano i migliori risultati.
C’era anche il mercato delle uve in Alba, di cui io, come i tanti contadini che portavano lì le uve, non ho un bel ricordo, perché i mediatori aspettavano sempre fino all’ultimo momento prima di comprare, così i vignaioli erano costretti a vendere a qualsiasi prezzo pur di non riportarsi indietro il carro pieno. Era una cosa un po’ triste, soprattutto quando non c’era una grande richiesta di uve da parte degli imbottigliatori. Noi invece preferivamo andare direttamente nelle cascine, anche perché così potevamo scegliere le uve che ci piacevano direttamente sul posto…

Io allora ero un ragazzo, e quindi non bevevo vino, però ho avuto subito un buon naso, nel senso che ho capito che facendo attenzione agli aromi che escono prima mangiando l’uva in tempo di vendemmia, poi assaggiando il mosto in fermentazione, e quindi il vino, si possono capire quasi tutte le cose che servono.
Ho imparato cioè a usare il mio naso come mezzo per giudicare se un vino era pulito o sporco, se era in grado di invecchiare bene, se aveva abbastanza sfumature o se non si sarebbe mai aperto, se poteva meritare una sua etichetta apposita o se era preferibile mescolarlo con altre partite, se facevo meglio a tenermelo per qualche anno in cantina prima di imbottigliarlo o se era meglio che lo vendessi subito a qualcun altro… posso garantire che il mio naso si è sbagliato raramente.
E questa è una cosa che continuo a ripetere anche ai giovani: imparate a usare l’olfatto, che oggi molti pensano che non serva più a niente: è con il naso che si capiscono le cose più importanti in un vino.
E aggiungo un’altra cosa proprio mia personale: io non ho mai bevuto fuori pasto, anche perché credo che non faccia bene bere vino a digiuno, con lo stomaco vuoto, come fa invece tanta gente non solo in Italia…

Finalmente se ne vanno i periodi più difficili, la guerra è finita e negli anni Cinquanta comincia a vedersi qualche segnale di ripresa, l’economia si rimette in movimento e torna anche l’interesse per il vino di qualità…
E allora convinco mio padre a lasciarmi fare e a riprendere in mano la produzione di bottiglie che aveva iniziato mio nonno: è il 1960 e decido di far nascere la Bruno Giacosa. Avevo 31 anni e da 15 giravo per le cascine e per le vigne, per cui mi sentivo pronto a prendere l’iniziativa e a dimostrare che ero in grado di fare dei buoni vini.

A quei tempi, in verità, non avevo grande conoscenza dei vini del resto d’Italia e del mondo, ne avevo assaggiati ben pochi. Avevo però già degustato tantissimi vini delle Langhe e mi ero convinto che meritassero di più, che potessero tornare a essere importanti come ai tempi della nascita del Barolo, quando questo vino veniva apprezzato anche nelle corti europee.
E, per dirla tutta, avevo anche assaggiato tanti vini non buoni, con dei difetti evidenti o che il nome Barolo ce l’avevano scritto solo sull’etichetta. Erano gli anni in cui non c’erano ancora le Doc, arrivate subito dopo nel 1963, e men che meno le Docg, che sono del 1980, per cui diciamo che la produzione non era tenuta a rispettare molte regole e si continuava, addirittura, a sentir parlare di imbottigliatori locali che andavano nel Sud Italia a comprare partite di vini che venivano poi mescolate con il nostro nebbiolo.

È così che decido di dedicarmi a fare solo vini di qualità… per fare vini di qualità decido anche che avrei iniziato comprando le uve più belle che potevo nei più bei vigneti delle Langhe. E decido di comprare uve anche perché, quando ho iniziato, non avevo la disponibilità economica per acquistare delle vigne, per cui mi andava bene così: era il 1960 e il 1957 è la data della prima etichetta che ha portato il mio nome…
c’è stato un buon passaparola, qualche giornale ha fatto subito il mio nome e, insomma, sono riuscito a far crescere la produzione con buona costanza e a non avere mai dei problemi di vendita. Anzi, devo purtroppo dire che non sono mai stato attento a conservare delle bottiglie delle varie annate: e questo è uno sbaglio, perché non mi consente di far conoscere la memoria storica della mia cantina e di organizzare degustazioni di vini molto vecchi.
E quindi voglio fare una raccomandazione a tutti i miei colleghi più giovani: tenete da parte delle bottiglie, soprattutto quelle delle annate più buone, perché vi saranno utili e faranno parlare di voi anche dopo decenni.

Perché l’importanza di una zona enologica si dimostra quando si possono stappare delle bottiglie di 20, 30 o 40 anni e scoprire che sono ancora più buone di quando sono state messe in commercio, come hanno ben dimostrato i francesi.

A questo punto non posso non citare la persona che mi ha fatto decidere a fare un cambiamento che poi si sarebbe rivelato molto importante per la mia cantina e per tutta la zona. Parlo di Luigi Veronelli.


Veronelli è venuto spesso ad assaggiare i miei vini, gli piacevano molto già nei primi anni Sessanta, però si lamentava perché “non avevano un nome”. Seduti a tavola – mentre mangiavamo assieme i piatti preparati da mia moglie Mariuccia, che quando poteva gli faceva sempre trovare dei tartufi, di cui lui era un grande appassionato – Veronelli continuava a consigliarmi di scrivere in bella evidenza sulle etichette il cru delle mie diverse selezioni.
Infatti io, fino ad allora, scrivevo solo il nome del vino (ad es. Barolo o Nebbiolo d’Alba), al massimo arrivavo a scrivere Riserva nelle migliori annate, come ho fatto per la prima volta con il Barbaresco Riserva Speciale 1961.
Io avevo ben in mente l’importanza dei singoli vigneti, che allora non si chiamavano ancora cru, anzi era proprio il concetto che avevo alla base del mio lavoro di selezionatore di uve per me e per altre cantine con cui continuavo a fare il mediatore, però avevo un po’ di paura a fare questa scelta. Questo perché la tradizione più consolidata nelle Langhe era quella di unire le uve di vigne diverse (parlo soprattutto di Barolo e Barbaresco), e devo anche dire che qualche buon motivo per fare questi assemblaggi c’era: un anno c’era più siccità e venivano meglio le uve in una posizione un po’ meno soleggiata, un anno c’era la grandine che ti portava via mezzo raccolto in una vigna, e così via…

… decido che Veronelli aveva ragione e che chi si stava appassionando ai miei vini aveva il diritto di sapere il nome del vigneto in cui si coltivavano le uve che decidevo di vinificare, per cui esco nel 1967 con le mie prime due etichette cru: Barbaresco Asili e Barolo Collina Rionda (Vigna Rionda), seguite nel 1968 dal Barbaresco Santo Stefano.
La mia idea di vino era allora, e lo è ancora oggi, piuttosto semplice: volevo fare dei vini molto buoni, quelli a base di nebbiolo dovevano migliorare per molti anni, e il tutto doveva avvenire nel modo più naturale possibile. Per fare un esempio, io non ho mai voluto, e ancora non voglio, aggiungere lieviti esterni, che ovviamente vanno a modificare un po’ le caratteristiche del vino, per cui tutte le fermentazioni voglio che si attivino solo con i lieviti naturali che ci sono nelle vigne e in cantina. E in vigna ho sempre cercato uve che fossero trattate il minimo possibile, anche se è
diventato sempre più difficile.
Faccio qui un inciso importante, che mi ha poi portato a cambiare l’impostazione dell’azienda e a comprare della terra: fino a quando non c’è stata la meccanizzazione e non ci sono stati i Consorzi agrari che hanno iniziato a vendere prodotti di tutti i generi, il lavoro in campagna era assolutamente semplice e avveniva senza dare diavolerie. Si faceva tutto a mano e ci si limitava a fare trattamenti con il verderame e con lo zolfo.
Punto e basta, e le bucce delle uve erano spesse e compatte, non si disfacevano mai…

… io sono profondamente legato all’espressione più classica dell’uva nebbiolo, perché sono convinto che non abbia bisogno di aggiunte esterne. Sono sempre rimasto legato all’uso di botti piuttosto grandi per la maturazione di Barolo e Barbaresco e non ho mai voluto adottare le barrique, proprio perché ho visto che una lenta evoluzione, come quella che avviene in una botte grande, è il modo ideale per arrivare a vini che rispettino pienamente la personalità delle nostre uve e che migliorino per molti anni in bottiglia.
Però devo anche dire che io ho sempre fatto dei cambiamenti, certo in modo lento, ma continuo…

Non voglio però dire che mi sono inventato questo stile tutto da solo: con pochi produttori con cui avevo un rapporto di amicizia e di fiducia mi sono sempre confrontato volentieri, e insieme abbiamo parlato cento volte di come migliorare sempre di più i nostri vini.
Tra questi produttori ce ne sono almeno due che voglio ricordare e che voglio indicare a tutti come persone che hanno veramente fatto del bene al mondo del Barolo, che purtroppo ci hanno lasciati ma che spero di cuore che non siano mai dimenticati: sono Bartolo Mascarello e Aldo Conterno

Passa il tempo, intanto, e mi rendo conto che trovare le mie uve ideali è sempre più difficile: a volte produzioni troppo alte di uva, altre trattamenti che mi sembrano troppo invasivi, in altri casi ancora i vignaioli iniziano a diventare cantinieri e a prodursi da soli il loro vino: come tutti sanno questo è un fenomeno che dalla fine degli anni Settanta ha interessato in modo massiccio tutte le Langhe.
Per fortuna avevo risparmiato qualcosa… ed ero finalmente in grado di comprare qualcosa di importante.
Ovviamente, avevo già deciso che, quando avrei potuto mettere su delle vigne di mia proprietà, avrebbero dovuto essere quelle a cui ero più legato, quelle che mi avevano dato delle emozioni e che ero sicuro avrebbero potuto garantirmi di fare grandi vini. Ecco che nel 1980 riesco ad acquistare in Serralunga i 13 ettari del cru Falletto al completo (qui avevo già preso 1 ettaro e mezzo e avevo visto che meravigliose uve vi nascevano).

Per arrivare a trovare un bellissimo vigneto in vendita nella zona del Barbaresco ho invece dovuto aspettare fino al 1996, quando ho avuto l’occasione di acquistare più di 5 ettari negli Asili.
Nel ’98 ho comprato anche qualche ettaro vitato a La Morra, ma devo dire che ho poi rinunciato a fare un cru di Barolo con queste uve: gli appassionati da me si attendevano vini robusti e importanti, mentre il Barolo che ricavavo di qui era un po’ più sottile e delicato. In compenso a La Morra faccio ottimi Dolcetto e Barbera.

… lavorare la vigna, oggi, non è più duro e faticoso com’era una volta, anche se comunque c’è da sudare. E resta un lavoro difficile e molto delicato, che deve essere fatto da persone che abbiano esperienza e voglia di fare bene.
Per questo, quando devo comprare delle uve, voglio sempre essere ben sicuro di chi va nei filari, di chi fa le potature, eccetera. E io ho tutto personale fisso e regolarmente assunto, che anno dopo anno migliora le proprie capacità.
Mi spiace anche molto vedere che i giovani italiani non vogliono più fare i vignaioli, come se fosse un lavoro di serie B. Io invece voglio dire a tutti che lavorare la campagna può dare grandi soddisfazioni: vedere come si fa crescere un vigneto, che tipo di uve maturano e fare una bella vendemmia può essere un bel lavoro anche se poi si vendono le uve e non le si vinifica direttamente, per cui mi auguro che ci sia una rivalutazione della figura del vignaiolo, che, non dimentichiamolo mai, è quello che decide se il vino sarà buono oppure no, perché in cantina c’è ben poco da inventare e se le uve non sono sane, non si potrà mai creare una grande bottiglia.
Il mio augurio è che, come noi produttori siamo diventati famosi e abbiamo fatto un po’ di fortuna, e quindi adesso tutti ci guardano con rispetto, il lavoro del contadino riacquisti la considerazione che merita, anche a livello economico….

… io sono sempre stato un po’ accentratore, forse anche troppo, mi fidavo più di me che degli altri. Ma ho avuto la fortuna di avere attorno una squadra valida che ha capito l’importanza di questo lavoro e che ha collaborato alla sua riuscita: da mia moglie Mariuccia, che ha organizzato la mia vita in modo che io mi sentissi sempre a mio agio nel lavoro, a mia figlia Bruna, che da vent’anni è impegnata con entusiasmo e spirito di sacrificio a valorizzare i nostri vini qui e nel mondo, a mia figlia Marina che mi ha dato uno splendido nipotino sino a tutti i miei collaboratori…
ho avuto molta fortuna, i miei vini sono apprezzati in tutto il mondo, lascerò alla mia famiglia e alla mia terra un nome che è diventato importante per tanti appassionati di vino, e la cosa mi fa ovviamente piacere.
E di questo devo rendere omaggio anche a chi si è con passione dedicato alla valorizzazione dei nostri vini e delle nostre terre. Ho già ricordato Luigi Veronelli, ma, a partire dalla fine degli anni ’80, Slow Food è stato quello che ha impresso una nuova marcia e ha consentito l’affermazione a livello mondiale dei vini delle Langhe…
… Ai giovani voglio segnalare un errore che io ho fatto ma che loro non devono ripetere: viaggiate, andate per il mondo, assaggiate vini fatti da altre parti e quelli dei vostri vicini, perché non è più il periodo adatto per occuparsi di cantina e vigna e basta… imparate a confrontarvi con produttori e mercati di altri Paesi, perché sarà utile a formare anche una cultura più aperta e non più chiusa nel nostro provincialismo.
La cosa che mi fa più piacere, al di là della mia cantina, è vedere che le Langhe sono diventate sempre più un luogo in cui si produce qualità, che il nome di queste terre è stato inserito nella ristretta cerchia delle aree più vocate del pianeta, che questi vini hanno finalmente il successo che io, fin da giovane, speravo che avrebbero potuto meritarsi.
Non è stato facile, e anche oggi viviamo dei momenti poco sereni, ma sono orgoglioso di aver contribuito a diffondere nel mondo l’immagine dei vini Barolo e Barbaresco…

Io non so se merito questa laurea, ma sono lieto di poterla dedicare alla memoria di Aldo Conterno e a tutti i produttori che fanno vino di qualità nelle Langhe.”

Infine, il saluto di Carlin Petrini:

… I nostri studenti, che per il primo anno sono per la maggior parte stranieri, porteranno con sé, finito il percorso accademico, un pezzo del nostro territorio, una parte di Langa, quella Langa di cui Bruno Giacosa è uno dei testimoni più importanti. Accogliendo il finale delle sua Lectio Magistralis, noi premiando Giacosa premiamo tutti coloro che lavorando la terra hanno creduto nell’impossibile come Don Chisciotte.
Dobbiamo essere tutti uniti nella nostra diversità con una logica di sentimenti che viene prima delle logiche di mercato. Infatti oggi siamo qui a testimoniare solidarietà e stima a un simbolo della diversità e ricchezza del nostro territorio.
Un omaggio a lui e a una moltitudine di persone che concepiscono il mondo del vino basato sulle diverse identità e sfaccettature. Chi oggi parla di crisi, non si rende conto che è una crisi epocale.
Perciò siamo costretti a trovare nuovi paradigmi. Il più importante è il ritorno alla terra, riconciliarsi con la natura; i prodotti agricoli, in primis il vino, non sono commodities, ma valori.
Senza valorialità perdiamo il senso del passato e la visione del futuro».

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