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Laurea Honoris Causa a Bruno Giacosa

luglio 10, 2012 by Gian Arturo Rota in Attualità, Eventi with 0 Comments

Oggi, all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, Carlin Petrini consegnerà a Bruno Giacosa la

Laurea Honoris Causa, per “meriti enologici”.

Si tratta di una delle pochissime lauree del genere al mondo. E’ una gioia per tutti, un orgoglio anche.
Riassume e prema la carriera di un uomo che, in anni e anni di lavoro paziente, rigoroso e coerente, non solo ha prodotto vini cru-vessillo e portato altissimo il nome dell’enologia italiana, ma ha raccolto intorno a sé pieni consensi (stima, ammirazione, affetto) anche da parte dei colleghi, piemontesi e no. Un fatto raro. E bello.
Aumenta la mia personale gioia, l’aver incluso il suo Barbaresco Santo Stefano Riserva Speciale 1978 tra gli otto favolosi (4 Barbaresco e 4 Barolo) messi in degustazione, sempre a Pollenzo, lo scorso 24 maggio nella giornata in omaggio a Luigi Veronelli.

Nei prossimi giorni, “posterò” sia la Laudatio del professor Nicola Perullo sia la Lectio Magistralis dello stesso Bruno Giacosa.
Intanto, mi sono messo a cercare in archivio quel che Veronelli – che Giacosa ha conosciuto bene, e viceversa – ha scritto su di lui e ho selezionato tre articoli, da Panorama, degli anni settanta.
I primi due a raccontare il produttore, il terzo l’esperienza, insieme ai fratelli Stupino, di… grappaiolo.
Gustosissimi tutti e tre (Gian Arturo Rota)

Panorama n. 528, 3 giugno 1976
Trema l’erba d’intorno

Certo, ci sono personaggi – nel mio campicello, il vino, dico – che ti stupiscono ad ogni incontro.
Vedi un po’ il Bruno Giacosa di Neive; scontento, brontolone, pessimista e, proprio per questo suo pessimismo, arrabbiato alla ricerca del meglio.
Hai da vederla l’amaritudine con cui mi “sciorina” lì sul tavolo, tutta la serie dei campioni-cru di cui dispone. Non ti aggredisse, già al momento che te ne versa uno, il fiato lungo e travolgente – alla sua malinconia, all’irrequietezza, all’aspetto – giureresti: la peggiore congrega di vini da cotogni.
Buondio, che all’elogio pari non sono le parole: ciascuno di un’annata monstre, scelto appunto con la rabbia del meglio, Barbaresco cru Santo Stefano di Neive d’Alba, Barbaresco cru Asili di Barbaresco, Barbaresco cru Montefico di Barbaresco, Barolo cru vigna Rionda di Serralunga d’Alba Val Maggiore di Vezza d’Alba, Freisa cru Licenziana di Barbaresco, Grignolino cru Presidente di Olivola, Grignolino cru Valfea di Quarto d’Asti, Dolcetto d’Alba cru San Cristoforo di Neive, Barbera d’Alba cru Arioni di Serralunga d’Alba, Barbera d’Alba cru La Ginestra di Monforte, Arneis bianco secco dei vigneti dei Roeri (sì, l’ultimo non ha cru: vino prodotto da un vitigno “disperso” é rivissuto per la buona volontà di alcuni “invecchiatori”: é giocoforza raccoglierne i pochi grappoli un poco qua e un poco là, a Montaldo, a Monteu, per le vigne dei cosiddetti Roeri, di cui l’uva é da considerarsi autoctona.
Sentilo come – anziché placarlo – il mio entusiasmo, per Barbaresco e Barolo, l’esaspera: tutti a chiedergli il 1971 ed ignorare il 1970. Maledetti, debbo dirlo? Bruno ha millanta ragioni: sparsa la voce (vera) di un 1971 superbo eccoli saltar tutti, come le capre, dove ne salta uno, senza pensar più oltre. Amico mio, ci si deve guardare, massì anche pel vino, dalla voce del popolo: il 1970, sia per i cru del Barbaresco, sia per i cru del Barolo, ora e per molti anni é per maggiore equilibrio ed armonia, più completo.


Panorama n. 644, 22 agosto 1978
Barbaresco senza eguali

«Nel» vino vi sono personaggi – i fratelli Ceretto, Bruno Giacosa, Franco Spagnolli, Mario Schiopetto (essì, potrei continuare) – che mi stupiscono per innegabile magia: sanno trasferire nel vino le rabbie del loro animo così da raggiungere pressochè sempre – loro e il vino, dico – l’eccellenza.
Vedi Bruno Giacosa e il suo Barbaresco cru Santo Stefano di Neive 1971. Assaggiato, riassaggiato più volte nella botte, ne avevamo timore: grosso, denso, abboccato. Bruno scuoteva il capo, ci s’arrabbiava sopra: troppo ricco, sarebbe mai riuscito a dargli controllo e rigore? Le uve – ripeto: del vigneto Santo Stefano di Neive vendemmia 1971 – gli erano giunte in cantina per la pigiatura con una gradazione di 24-25 «babo». Avevano fermentato due mesi a una temperatura di 30-32 gradi. Alla svinatura, poco prima di Natale, s’era trovato un vino che sembrava «abbastanza» secco. Al primo travaso di primavera era incominciata la fermentazione malolattica e si presentava all’assaggio come un grandissimo vino ma con un marcato sapore di dolce. Lo aveva fatto analizzare: 15 gradi di alcol e 1 grado abbondante di «baume».
Quel gusto dolce a contrastare la sicura grandezza fu per Bruno come un tradimento. Malabiò, smangiò rabbia, non si diede per vinto. Sette anni l’ha seguito con cura e pazienza certosina; sette anni gli ha parlato; a ogni ora è intervenuto con mille accorgimenti e convinzioni. Lui ci si è fatto i capelli bianchi, il vino secco e con profumo e corpo eccezionali. Una parte di questo vino è andata in bottiglia (solo tre mesi fa: a ogni ascolto ne sono affascinato, e neppure è al cinquanta per cento di sua bontà e completezza).
Bruno tiene la rimanenza ancora in botte, qualche anno, «come riserva».
Scuote ancora (da buon langarolo) la testa e, in positivo-negativo, afferma: «Un vino simile non si farà mai più».

Panorama n. 708,12  novembre 1979
Esaltiamoci con la grappa

Già due volte mi sono occupato, in questa rubrica, di grappaioli eccelsi: Romano Levi e i Nonino. Con gioia, e qualche emozione, scrivo oggi di Bruno Giacosa e dei fratelli Stupino. Le grappe – prodotto emblematico, quale diretta «continuazione» di vinaccia e vino, della contadinità – da sempre occupano spazio importante nel mondo, appunto, contadino. Forse proprio perciò, in questa nostra Italia operaistico-borghese, è stata (del tutto) trascurata. A differenza di altri Stati – la Francia per il cognac e l’armagnac, la Gran Bretagna per il whisky, ecc. – pur di fronte a un prodotto, grappa, che potrebbe avere lo stesso prestigio e una grande diffusione internazionale, i nostri politici, e gli stessi appartenenti alla categoria, hanno trascurato l’elaborazione di leggi e regolamenti atti alla sua valorizzazione e difesa. Valorizzazione e difesa che esigono sia il rispetto delle origini geografiche, sia la precisazione (e l’obbligo) delle condizioni in cui deve essere la materia prima, vinaccia, al momento della consegna all’utilizzatore-distillatore, delle cure per la conservazione, dei metodi di distillazione e degli eventuali modi e controlli di invecchiamento. Al solito, e graziaddeo, c’è voluta la (buona) volontà di alcuni (piccoli) grappaioli ad attuare – nella pratica contro i (cattivi) propositi della maggior parte dei grossi – le (necessarie) regole.
Italo e Giulio Stupino e Bruno Giacosa, produttori in Neive di alcuni cru strepitosi, si sono messi assieme, hanno acquistato il Castello di Barbaresco e vi hanno impiantato una distilleria esemplare del tipo a infusione: un alambicco, un distillatore, un refrigerante e un condensatore. Ora ho sul tavolo dei miei assaggi le loro bottiglie e sono emozionato: la distilleria del Castello di Barbaresco ha distillato con le vinacce della vendemmia del 1978, per l’esattezza, dal 13 novembre al 27 febbraio 1979, in 412 ore, 15 superbe grappe: 6 dalle vinacce di Barbera d’Alba, Barbera d’Asti, Dolcetto d’Alba, Nebbiolo d’Alba, Barbaresco e Grignolino d’Asti e 9 – addirittura, pensa te, con vinacce selezionate secondo cru – di Barbaresco cru Basarin, di Barbaresco cru Satno Stefano, di Barbaresco cru Ovello, di Barolo cru Brunate, di Barolo cru Villero, di Barolo cru Annubio, di Barolo cru Ginestra e di Arneis «dei Roeri». Ora sono qui, le assaggio e mi esalto: queste grappe sono tali per esasperante ed elegante individualità, da affrontare e superare il confronto con qualsiasi straniero distillato. La Grappa di Arneis dei Roeri – carissima per l’estrema difficoltà imposta dalle vinacce del «perduto» vitigno, 25 mila lire, senza iva, franco partenza – mi ha dato: al naso, profumo delicato ma intenso, ampio e di incredibile persistenza; in bocca, sapore morbido con minima e gradevolissima cadenza abboccato, struttura giustamente alcolica, notevole razza e armonia; all’occhio, trasparenza cristallina; sia all’occhio, sia al naso, netto il cosiddetto «riconoscimento del vitigno». Le altre grappe di cru, il cui costo è di 15 mila lire (le altre grappe «di vitigno», anche pregevoli, costano 13 mila lire), hanno individue caratteristiche, e quindi differenze, ma non sono da meno.

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