Luigi Veronelli
Qualità e qualità del vino italiano. Parte prima
Nel 2002, L’istituto enciclopedico Treccani chiese a Veronelli di collaborare per Il Libro dell’Anno 2002, un volume che “costituisca un punto di riferimento per la selezione e la presentazione delle evenienze, dei problemi e dei risultati più rilevanti dell’anno di riferimento…“, sul piano sia cronologico-nozionistico-documentaristico sia delle motivazioni e implicazioni culturali. Per questo secondo aspetto, una trentina di temi e tra questi anche il vino, con titolo Qualità e quantità del vino italiano. Veronelli accettò con certo entusiasmo, precisando che “mi ritengo capace di descrivere le qualità, del tutto incapace sui dati reale delle quantità”. Questi ultimi furono trattati dalla redazione in un box a parte.
Uno scritto importante e lungo, per ciò lo pubblico in due tranches. Ecco la prima (Gian Arturo Rota).
C’era una volta un giovane cui la vita pareva avesse concesso quasi tutto; in particolare, un padre ricco e intelligente, una sorella ed un fratello simpatici ed intelligenti, e soprattutto, a lui in persona oltre al normale buon senso, la dote del prevedere enoico e, con la preveggenza, la facoltà di dare utili consigli.
Giunto a maggior età quel giovane, anzi: quell’uomo si innamorò (è noto che l’amore ha pur le sue cadute di buon senso) del vino, c’est à dire, dei vini e dei loro produttori.
Per anni ed anni ed anni, forte solo della ricchezza lasciatagli dal padre, della preveggenza e dell’amore, quell’uomo inondò il paese di Chissà di messaggi, con ogni possibile mezzo – giornali, libri, radio, televisione – tutti tesi al fine che i vignaioli facessero vini sempre più belli e buoni.
Tanti e tanti e tanti furono quei messaggi – senza merito peraltro dell’uomo che la fortuna aveva dotato di preveggenza – che i vini del paese di Chissà divennero i migliori del mondo ed i suoi vignaioli – pressoché tutti, all’inizio, poverissimi – quantomeno benestanti.
La favola è banale e troppo trasparente; andava tuttavia raccontata all’inizio di queste mie note sulla qualità 2002 dei vini d’Italia.
E’ dal 1956 che – lasciati gli studi filosofici e la rivista Il Pensiero, i politici e la rivista I Problemi del Socialismo – mi occupo, pressoché in esclusiva, dei vini. Ma sono stati un personaggio, non italiano ed una data, 20 maggio 1983, a darmi prova: la nostra enologia si era avviata in modo deciso ed inequivocabile, al meglio.
Il principe André Tchelischeff è stato l’optimus oenologus del secolo scorso.
Non posso dimenticare quel mio antico – anni Settanta – viaggio in California alla ricerca di quei vini lontani di cui m’era stato detto un gran bene. La verifica fu, a dir poco, sorprendente. Non v’era cantina ch’io visitassi, senza l’assaggio di una, due, tre bottiglie eccellenti. Alla mia domanda – ripeto: stupefatta – su chi aveva curato quel vino, la risposta era, pressoché sempre, André Tchelischeff. Logico, lo volli conoscere. Lo incontrai all’Università di Davis, ove teneva cattedra; ne nacque una lunga, commossa amicizia.
Tchelischeff. Di dove mai veniva? Devi sapere: si tratta – ahimè, si trattava – d’una delle famiglie più aristocratiche della Russia. Più volte ne ritrovi il nome nella storia di quel Paese, sempre a fianco degli Zar.
Era nato a Mosca, novembre 1900; sarebbe divenuto, secondo tradizione, un militare. No, che il 1917, lui diciassettenne, scoppia la Rivoluzione d’Ottobre. La famiglia sfugge ai massacri bolscevichi e si rifugia in Dresda, ov’è la più nordica tra le scuole di enologia. André vi si laurea a pieni voti; è assunto come enologo nella fortunata Champagne. Vi rimane per anni ed anni; principe ma “liberal”, all’arrivo dei nazisti, si trasferisce in California.
Alcuni grandi vini californiani sono grandi per merito suo. Lo sono anche, merito suo, i grandi vini italiani.
Convinsi Tchelistcheff – già consulente della famiglia Antinori – ad un viaggio in Italia, così da confrontarsi con gli enologi del nostro paese che agivano, pressoché tutti, in modo opposto al suo, con la ricerca di vini facili e passanti, adatti alla massa e non di vini problematici adatti agli individui.
Il 20 maggio 1983, in San Casciano, nella Tenuta degli Antinori, ci fu l’incontro decisivo. Il Maestro “di tutti noi” spiegò la sua teoria sull’uso della barrique, per lui necessario nella produzione di ciascun vino (fatta eccezione per il solo Riesling sia italico sia renano) che avesse l’ambizione e la possibilità di farsi grande.
Al termine della conferenza, Piero Antinori mi volle provocare: “Come, Gino, ancora una volta vuoi introdurre un termine francese nella nostra lingua?”. Gli risposi: “No, propongo – subito, ora – di non utilizzare la parola barrique, di sostituirla col termine carato”.
Il barile di legno è utilizzato da secoli, ovunque nella nostra patria (chiamo patria, la terra che si conosce e si capisce).
E’ troppo facile ricordare che Attilio Regolo fu ucciso dai cartaginesi col rotolamento, da una collina, in un barile di legno chiodato.
Perchè allora quel nuovo termine “carato”? Per le sue solleticanti ambiguità auree e per essere l’abbreviazione maggiorativa e migliorativa di caratello, toscano, e di caratèl, veneto e friulano. Infatti, carato è l’unità di misura per calcolare in quale proporzione l’oro fino è contenuto in 24 parti di lega (solo l’oro di 24 carati è purissimo).
Proprio per ciò, carato fu assunto dai nostri letterati antichi, al figurato, quale grado di perfezione, di bontà, di valore. Così che leggiamo in Domìnici, 1300: “Non annoverano i carati della perfezione, e fuggono credendo di approssimarsi a Dio”. Al Beato Giovanni Domìnici si contrappone, con prosa blasfema, l’Aretino: “Ti dico sol questo, esse (le vedove) sono venti carati più fine puttane che le suore, e che le maritate, e che le cantoniere”.
Last… l’uso tardo latino di definire carratum il fusto ligneo che si poteva porre sul carro, tenuto tra le braccia di un giovane e forte caricatore.
Reso certo dalle teorie del Maestro, scrissi: primo, l’uso del carato richiede tecniche a livello artigianale del massimo rigore, diverse da luogo a luogo e per ciascun vino; secondo, proprio da tale uso, nascerà anche in Italia una meditata e redditizia enologia.
La gastronomia è l’atto del giudizio che separa, nel campo degli alimenti e delle bevande, ciò che è buono da ciò che buono non è. Con parole più povere, si tratta della ricerca della qualità (o, addirittura, come vedremo, del pregio).
Qualità è voce dotta dal latino qualitas-atis, coniata da Cicerone sulla voce greca, e diffusa dalla scolastica già alla fine del secolo XII. Qualità è ciò che concorre in qualche modo a caratterizzare una cosa (una sostanza, un corpo, un luogo, ecc.). Dato l’assunto, con connotazione positiva.
Io considero di aver avuto, quanto ai vini, come solo Maestro, André Tchelistcheff.
Rileggo uno dei suoi dettati: essere i grandi vini “il risultato di una equazione che coniuga e contempla ad un tempo eleganza, equilibrio, morbidezza, consistenza, complessità, possibilità di pronta beva e capacità di lungo invecchiamento” ed affermo: non è mai stata scritta, e meglio non si può, una definizione altrettanto valida.
E tuttavia non si tratta di un dogma. Ciascuno di noi conosce grandi vini che non sono, o non possono essere considerati, “di pronta beva” – basti pensare allo Château Lafite in Francia ed al Brunello di Montalcino in Italia – così come ciascuno di noi sa di grandi vini che non sono “capaci di lungo invecchiamento” (ripeto: la famiglia dei Riesling renani e italici).
Oltre a ciò in Italia, ma anche in altri luoghi del mondo vitivinicolo si è discusso e si discute sui termini amaro e amaritudine, che qualcuno vorrebbe sempre negativi in un vino di qualità.
Amaro è sempre negativo; amaritudine è quasi sempre positivo, e addirittura – pensa all’Amarone della Valpolicella – “tipicizzante”. L’amaritudine è proprio il piacevole convergere del sapore dolce e di quello amaro.
Contro ogni previsione la fine del secolo appena scorso ha segnato anche per il vino – presso l’uomo civile in quanto colto – l’affermazione, più ancora che della qualità, del pregio. Il pregio concerne la qualità, più l’affezione ed ha implicazione ed esplicazione di superba individualità.
L’uomo civile – ripeto: in quanto colto – esige, oggi e nel futuro, anche per il vino, il pregio (da pretium, che è pure – ahinoi, fortunati noi – prezzo) l’esasperazione delle sue qualità positive, da considerare, stimare, onorare, celebrare, encomiare, lodare, apprezzare, valutare, godere. Per tal uomo vivere – anche bere, anche mangiare (le considerazioni fatte per il vino potrebbero essere ripetute, con minimi mutamenti, per i cibi) – è pensare/pesare le qualità e separare – sarei tentato di scrivere: secernere – il bello dal brutto, il buono dal cattivo, il vero dal falso.
Il che sottolinea ancora una volta la necessità di disporre ed usufruire dei propri sensi, attenti, educati ed esercitati, capaci quindi di formulare – attraverso la diretta conoscenza e la comparazione coi dati dell’esperienza – giudizi motivati, di fare scelte, di trarne il piacere e la gioia.
In primis e soprattutto – per me, Luigi Veronelli – pregio è il riconoscimento. Mozart, Picasso, un vino (uno, ben determinato), una mela renetta della Val di Rabbi, un’aringa di Bergen (“addolcita” dalla musica di Grieg?) e il risotto alla milanese di Alfredo Valli, hanno la prima delle loro valenze dalla singolarità.
André Tchelistcheff è mancato novantacinquenne, sette anni fa, sino all’ultimo momento in superbe condizioni, capace di assaggiare e riconoscere ogni gran vino che gli fosse proposto. Ne osservava il colore, ne ascoltava il profumo ed a lungo lo tratteneva tra lingua e palato. Prima d’ogni altro giudizio ne dichiarava, soddisfatto, il nome. Anche per lui, il riconoscimento era il momento primo d’ogni enoica valutazione. (continua)
Luigi Veronelli
La seconda parte sarà pubblicata il 23 agosto
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